Le associazioni di RomagnaNotizie - Scuola & Università

CAVE CANEM / Perché vale la pena raccontare Leopardi anche ai ragazzi delle scuole tecniche

Più informazioni su

La questione dell’educazione dei tempi che viviamo è il tema questa rubrica CAVE CANEM. È proposta da docenti ed educatori cui interessa il rapporto con gli studenti, con la realtà e con l’attualità. Attraverso il legame con i ragazzi di UPpunto – che ospitiamo già da diversi mesi – è nata dunque l’idea di tenere questa nuova rubrica mensile che si intrecci alla loro e che tratti dell’emergenza educativa, quanto mai attuale e scottante, soprattutto in questo periodo. LA REDAZIONE

CAVE CANEM: Un imprevisto è la sola salvezza di Silvia Bezzi*

Dimmi, o luna: a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a Voi? dimmi; ove tende / Questo vagar mio breve, / Il tuo corso immortale?

Questo chiede Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. E questa domanda, negli anni, è rimasta lì, fissa nella mia mente, tra le tante citazioni letterarie che mi tornano in mente quando accadono alcuni fatti importanti o dolorosi della mia vita, in una specie di vocabolario in prestito dal quale tirar fuori parole quando alcuna riesce a descrivere ciò che vivo. Leopardi, però, tra tutti gli autori studiati e amati è rimasto lungamente in disparte, proprio lui, che mi era stato tanto d’aiuto i primi anni di università, quando ero piena di domande esistenziali.

Poi, appena rientrata al lavoro, mi è capitato di doverlo spiegare in una classe. E lì sono stata accolta, mentre spiegavo Leopardi, da un boato – letteralmente – di disappunto. “Ma prof, ma noi non facciamo il classico, ma a cosa ci serve studiare Leopardi? A niente, altrimenti avremmo fatto un’altra scuola”. “Ma non serve nella vita, tra un anno mi diplomo, non credo mi sia utile e non voglio ascoltarlo”. “Ma prof Leopardi è un pessimista”, “Seh, si figuri, in PCTO ci chiedono sicuramente degli idilli leopardiani”. Questi sono stati alcuni dei commenti più carini ricevuti alle 8 del mattino e non è stato certo dolce naufragare in questo mare.

Ma proprio queste domande o affermazioni dei ragazzi sono ciò che costringe un professore a chiedersi perché ne valga la pena: perché c’è chi desidera spiegare questa materia ai ragazzi? Cosa possono dirci gli autori? Conquistare gli uditori non è facile, non lo è mai, men che meno se la lingua è distante. Ma come si può restare indifferenti al limite della siepe de L’Infinito e all’immaginazione che si spinge oltre allo sguardo ostruito, se ricorda il limite della prima quarantena, quella del 2020? E subito dopo, occorre ripassare A Silvia. E si riparte con le obiezioni (che sembrano proprio sassi lanciati, tale ne è la veemenza). “Anche le figure retoriche? No prof, la prego!”, “Ma poi non stavano neanche insieme, lei non si chiamava così ed è morta!”, “Ma poi quanto è lunga! Tutta la dobbiamo fare?” In effetti: a che serve studiare A Silvia, che non si chiamava nemmeno così? Eppure quando attraverso le sudate carte e la faticosa tela si coglie questa comunanza tra Leopardi e Silvia/Teresa, qualcosa scatta nella classe: il poeta e la ragazza hanno un destino comune, come ognuno di noi. “Ma allora bisogna studiare anche il pensiero quando si fa letteratura!” esclama qualcuno, ancora polemico, perché non gli basta nessuna semplice affermazione per essere soddisfatto, il ragazzo vuole proprio torchiare le ragioni di chi ha di fronte.

E poi i versi: O natura, o natura,/ Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? perché di tanto/Inganni i figli tuoi? Ecco che sono sentiti da tutti, perché a chiunque è capitato, almeno una volta, di provare la sofferenza e la disillusione di fronte a qualche momento difficile, è capitato a tutti di vivere qualche speranza mancata. Così, combattuti tra il non voler far fatica e un voler sapere ancora, arriva anche la domanda: “Ma a lei, è stato utile studiare Leopardi, a parte per il lavoro?”. Touché. Occorre esplicitare ancora di più perché si è di fronte a loro. Così, tra un “prendete appunti” e un “non ho la penna”, tra un “ma quindi prof perché è andato a Napoli?” e un “dai vabbè le aveva tutte”, avanza il tempo per leggere insieme Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, senza parafrasi e figure retoriche, ma per leggere un’altra opera dell’autore e rispondere ai ragazzi.

E arrivano quei versi potenti che interrogano tutti sul senso della vita, di cui le loro obiezioni alla fatica, alla lezione fine a se stessa, all’ennesima ora di scuola, altro non sono che le mille sfaccettature della stessa domanda. E attraversa i secoli la domanda di Leopardi, cambia forma, ci inchioda un attimo, in una giornata di inizio maggio, alle 9 del mattino. Improvvisamente, senza squilli di tromba o cambiamenti ci accomuna. Non mi dicono che hanno capito, non ringraziano per la bellezza della lezione, non cambiano il loro modus operandi. Ma in quell’attimo di silenzio c’è già tutto: c’è già il barlume che la letteratura abbia ancora qualcosa da dire agli uomini e che questo vagare possa avere un senso.

* Silvia Bezzi, insegnante di lettere alle superiori, appassionata di letteratura e grammatica

Uppunto

Più informazioni su