Sono oltre 5.300 i lavoratori in cassa a Ravenna e provincia, i più a rischio con la fine del blocco ai licenziamenti

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È notizia di ieri: il Ministro Patuanelli ha dichiarato che il blocco dei licenziamenti, in vigore dal 23 marzo per limitare l’emorragia di posti di lavoro causa pandemia, non sarà prorogato. A livello nazionale, le stime parlano di quasi un milione di posti di lavoro a rischio, ma in provincia di Ravenna qual è la situazione?

“Attualmente non siamo ancora in grado di capire quali ricadute reali ci dobbiamo aspettare sul territorio ravennate – spiega Costantino Ricci, segretario provinciale della Cgil di Ravenna -, perché nessuna azienda ha già avviato procedure particolari. Ad oggi ci sono oltre 5mila lavoratori in provincia che usufruiscono di ammortizzatori sociali quindi le preoccupazioni e i timori ci sono e sono fondati”.

Tra i settori più a rischio nel ravennate, ci sono quelli che ruotano attorno al commercio e al turismo, ovviamente, come i ristoranti, i negozi, i bar. “Alcune di queste attività sono a rischio chiusura – precisa Costantini -, altre hanno riaperto dopo il lockdown di primavera ma non con tutto il personale che avevano prima. La preoccupazione è data anche dal fatto che molte aziende del territorio sappiamo che non hanno ordini congrui per l’attività che svolgono, il commercio mondiale è calato di oltre il 12% e non si sa quel che succede e succederà nei Paesi vicino a noi, come Francia e Germania”.

“Preoccupazione c’è – prosegue -, perché il mercato è abbastanza fermo, quello dell’automotive non è ripartito e noi in provincia abbiamo tante imprese della gomma-plastica e della meccanica che lavorano per questa filiera. Poi c’è il blocco delle estrazioni che porterà le aziende, alla fine del percorso della cassa integrazione, non potendo più garantire lavoro al personale, a licenziare”.

Non si prospetta dunque un bell’autunno dal punto di vista del lavoro. Secondo le stime del sindacato, risultano 5.343 i dipendenti in cassa integrazione in provincia di Ravenna, a cui va aggiunta tutta la “galassia” dell’artigianato, settore che segue regole diverse, in cui gli eventuali rinnovi vengono fatti in automatico e con report successivi.

“Per avere un’idea di che cosa significhi – spiega Davide Gentilini del Centro studi della Cgil -, è utile confrontare questo dato con i periodi più bui della crisi economica dal 2009 al 2013: lì siamo stati poco sopra i 7mila lavoratori in cig. Anche ora che il lockdown è esaurito e le attività sono aperte, restiamo comunque vicino a quei numeri. Quando il blocco dei licenziamenti verrà eliminato, è facile prevedere cosa succederà a quei lavoratori”.

“I settori più coinvolti dal ricorso alla Cassa integrazione – aggiunge – sono, anzitutto quello dei servizi terziari, che è anche il più ampio come numero di lavoratori assunti. Ancora oggi risente della crisi del lockdown. Segue poi quello del commercio, che include ad esempio i negozi di parrucchiere e servizi alla persona: è in ripresa, ma i numeri della cassa sono ancora piuttosto elevati. Quello che ha cominciato a risentire più tardi della crisi, ma che ora vede numeri importanti è il settore metalmeccanico: ad oggi sono 2.588 i lavoratori di questo comparto in cassa integrazione o che usufruiscono di qualche forma di fondi di integrazione salariale. Circa la metà dell’intera cifra dei cassintegrati”.

“Già tra aprile e maggio c’è stata una cospicua perdita di posti di lavoro sui precari – prosegue nell’analisi -. Il numero aggiornato a maggio 2020, dice che rispetto al 2019 sono stati persi oltre 10mila posti di lavoro a tempo determinato”.

Il dato va letto con attenzione: poco meno della metà, circa 4700, sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato, mentre la restante parte, 5321, erano lavoratori precari a tempo determinato, che al termine del proprio contratto non si son visti proporre né rinnovi, né tanto meno trasformazioni in indeterminato, ma hanno perso il posto.

“Pensando a chi fa la stagione al mare – commenta Gentilini – siamo di fronte sì a lavori a tempo determinato, ma allo stesso tempo fissi, perchè si riattivano ogni anno. È un grosso colpo alle casse di questi lavoratori. Dopo i precari, che già hanno vissuto una stagione durissima, ora siamo preoccupati per i lavoratori a tempo indeterminato, lo zoccolo duro dei lavoratori, il cui posto è a rischio con la fine del blocco dei licenziamenti”.

Anche in campo economico pare dunque che si possa parlare di prima e seconda ondata della pandemia: la prima, che durante il lockdown si è abbattuta soprattutto sui lavoratori precari e la seconda, dall’inizio del 2021, pronta ad abbattersi su quelli a tempo indeterminato.

Parlando del settore turistico in senso stretto, il raffronto tra aprile 2018, 2019 e 2020 è impietoso: le attivazioni di contratti lavorativi ammontano a 5.810 in aprile 2018, per diventare 7.325 nell’aprile 2019 e poi crollare a 232 nello stesso mese del 2020, in pieno lockdown. La stagione turistica, seppur in estremo ritardo è partita a giugno, qualcosa si è recuperato da quel baratro, sebbene con una contrazione consistente del tempo lavorato. Ma per moltissimi lavoratori la stagione non è partita affatto.

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